di FABIO MARUCCI
GUIDONIA – In ogni tragedia l’indice finisce per additare il sistema, quell’ingranaggio alimentato da illusioni avveniristiche e risapute lacune sociali che diventano la giusta attenuante per sostituire un maturo mea culpa. Il trionfo delle occasioni perse, non importa che ad esprimersi sia la vittima o il carnefice. Che in cattedra salga l’ottantenne, oratore dall’alto della sua esperienza di vita, o lo spilungone con i baffi che a quattordici anni trova il tempo per accantonare i discorsi sulle sue esperienze erotiche, fermandosi a riflettere sul senso della sciagura. Affermare che la società è malata e carente di valori per giustificare una sbadataggine cronica, equivale a dire che il pescatore sprovvisto di reti non pesca a causa del mare in tempesta. Così si parte alla ricerca del riscatto: si diventa “garzone di prima” senza essere mai stato neppure “piccolo di camera” e la tragedia diventa riflessione distorta, un’occasione in più per accusare il sistema di non essere proprio quello del quale la società necessita. La logica della ragione, che a Guidonia Montecelio, un centro a pochi chilometri da Roma collocato tra toponimi che ben rendono l’idea di un terreno di natura paludosa, consente di stare dalla parte giusta, schierati tra quelli che “nessuno tocchi Caino”. Novembre 2007, un militare schivo e riservato mostra alla collettività i segni dell’instabilità. Racconta ciò che si cela a volte dietro la riservatezza sospetta, mischiando le carte del destino in un anonimo palazzetto di via Fratelli Gualandi, dal quale all’improvviso comincia a piovere piombo. A. S. di 52 anni spara alla folla e lo fa più volte. Non c’è traccia nel suo gesto della premeditazione di un killer, solo l’ingiustificabile vuoto che da almeno trent’anni lo accompagna. A freddo c’è chi si appella alle leggi e chi le disapprova, trovando nel sistema quella dose di illogicità che contagia i più vulnerabili. Intanto un ignaro passante, il cinquantacinquenne G. D. S. cade sotto la raffica di colpi, freddato dall’arma dell’ex militare, mentre L. Z., guardia giurata di 57 anni, viene ferito mortalmente. Si continua a parlare di leggi, della 180 in particolare, quella che da anni impedisce di rinchiudere i malati di mente negli ospedali psichiatrici, che nei processi per reati che coinvolgono persone mentalmente instabili diventa una co-imputata. Un episodio quasi sconosciuto racconta il senso di una teoria più urlata che analizzata. Nell’autunno del 1987, in un piccolo paesino della Puglia, tredici giovani di età compresa tra i 16 e i 26 anni provano a dare una lezione “al matto” di turno, un uomo di 38 anni abituato ad infastidire le ragazzine del posto, avendo fatto dell’incapacità d’intendere e volere la sua patente di pazzo. Una bastonata a testa e l’uomo muore in un lago di sangue. I tredici finiscono in carcere, mentre la legge 180 al processo si trasforma rapidamente da delatrice ad accusata. Sarà l’unica a godere dell’assoluzione con formula piena, perché quando il sistema fa acqua tutto intorno annaspa. Guidonia che ripropone un remoto racconto, spiegando la coerenza che passa tra il voler riscattare un desiderio di normalità e il vivere attaccati all’incubo della sventura. Il paese dei sogni al di là dei monti Cornicolani, dove a volte nello stesso quartiere non ci si conosce e le giornate si concludono con un saluto fugace nell’androne condominiale. Dieci minuti di follia, una folata ininterrotta di proiettili che sembrava non avere mai fine. Giusto il tempo di uccidere un negoziante e di ferire due rappresentanti delle forze dell’ordine, un medico, un dipendente del Ministero dell’Interno, uno studente universitario, una donna e una guardia giurata, morta dopo alcuni giorni di agonia. Un bilancio che lascia tutti a bocca aperta: la città della ricchezza prodotta sul territorio, che diventa il soggetto calzante per un inaspettato film dell’orrore che forse si sarebbe potuto evitato. Poi viene il tempo delle parole e delle pacche sulle spalle e ogni cosa torna al suo posto. Si mette alla gogna la società malata e tutto finisce tra gli incartamenti di un magistrato. L’opera drammatica giunge a compimento e rivela le abitudini di uno strano modo di comprendere e metabolizzare. La voglia di lasciarsi alle spalle gli eventi luttuosi prende il sopravvento sulla dimensione di un fenomeno aberrante, descritto meglio nella rapida “archiviazione morale” dei motivi del folle gesto, che negli omicidi in sé. La giustizia fa il suo corso e la vita a Guidonia riprende tra lavoro e parchi acquatici, discoteche e liturgie religiose. Non c’è spazio per la ricostruzione dei valori collettivi tra chi è convinto della solidità dei propri, così si torna rapidamente a quella pericolosa tranquillità che fa abbassare la guardia. Fino all’inizio del 2009, quando l’orrore del dramma torna a scuotere le coscienze dei guidoniani che si indignano di fronte ad uno stupro collettivo subìto da una 21enne, reato per il quale finiscono in carcere quattro stranieri. Questa volta non c’è tempo per riflettere sui guai del sistema e la folla si scaglia inferocita sugli arrestati condotti in caserma dai carabinieri. Niente attenuanti o giustificazioni ma solo voglia di giustizia, quella stessa che in altre circostanze probabilmente sarebbe stata invocata con meno fervore. Ci si rende conto che effettivamente qualcosa non funziona e che a rimetterci, come spesso accade, sono gli innocenti che magari le storture della società le denunciano da una vita. Il dramma che insegna, o che almeno dovrebbe farlo trattandosi di Guidonia Montecelio, una comunità che dimostra di saper rilanciare e andare avanti nonostante le sciagure. Si impara, così, che il pericolo è sempre dietro l’angolo, in un clima di sospetti e paure che poco ha a che vedere con l’astratto sistema e ci si accorge che è arrivato il momento di rimboccarsi le maniche per tornare a vivere, affinché ci sia ancora la possibilità di sperare e desiderare, nonostante i sogni andati in fumo. D’altronde il miglior consiglio lo da l’esperienza. Peccato che arriva sempre tardi.