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    Cronaca
    2 Novembre 2011
    "Integrati in città nonostante i problemi"

    CIVITAVECCHIA – «La violenza non ha mai giustificazione». Ne è convinto il portavoce della comunità senegalese locale, Ibra Seck, riferendosi a quanto accaduto lo scorso anno al cugino Cheick Mory Diouf, ucciso dai colpi di fucile sparati dall’ispettore di Polizia Paolo Morra, ma anche a quanto ha sconvolto nei giorni scorsi la città di Rosarno. «Noi qui a Civitavecchia non abbiamo mai avuto di questi problemi – ha spiegato – la città e i civitavecchiesi si sono sempre mostrati cordiali nei nostri confronti e noi cerchiamo di fare altrettanto: d’altronde quando uno viene in un paese straniero, non può fare ciò che vuole. Alla base di tutto c’è il rispetto. Non siamo molti qui, una quarantina di persone, ma nessuna ha mai avuto grandi problemi di convivenza e di integrazione: ci ha fatto piacere, anzi, l’affetto e l’interesse che i civitavecchiesi ci hanno dimostrato all’indomani del tragico omicidio di Diuof. Il dolore per noi è ancora forte: non riusciamo a spiegare quel gesto, non capiamo come possa essere accaduto e perché. Quando parla con la mamma di Diuof in Senegal mi sento in colpa, perché non ho nulla da dirle di nuovo per confortarla. In questo senso aspettiamo che la giustizia faccia il suo corso». Non traspaiono odio o vendetta dalle parole di Ibra Seck, ma soltanto la voglia di non perdere di vista i valori importanti della vita. «E’ stato ucciso un essere umano – ha aggiunto – non possiamo farlo tornare in vita, ma lo vogliamo ricordare e vogliamo ricordare la sua barbara uccisione: questi sono i motivi che ci hanno spinto ad organizzare il corteo». L’appuntamento è per domani, alle 16, davanti alla statua di Garibaldi. «In un anno non sono cambiate molte cose – ha aggiunto – i problemi ci sono, e sono quelli legati al lavoro e, soprattutto, all’assenza di una struttura dove poterci incontrare e dove poter pregare: speriamo di riuscire a trovarla in fretta. Per questo stiamo portando avanti un progetto insieme alle altre comunità, come quella marocchina o del Bangladesh, per essere uniti e far sentire la nostra voce».