CIVITAVECCHIA – Inizia da Gaetano Colaprieto una nuova rubrica de La Provincia: Amarcord, per ricordare i grandi protagonisti dello sport cittadino e sapere cosa sono diventati.
di SIMONE SERAFINI
Si sente ormai civitavecchiese fino al midollo, lui che, sebbene la sua famiglia sia di origini pugliesi, è nato e cresciuto a Torino e calcisticamente parlando nel club granata. Ma sono ormai ventisei anni che ha ‘sposato’ Civitavecchia e non cambierebbe questa città con nessun’altra, «il clima e la gente – dice sono unici». Gaetano Colapietro arrivò sul Tirreno nell’agosto del 1983. Uno dei più grandi talenti con la palla fra i piedi che abbia vestito la maglia nerazzurra venne quasi per caso a Civitavecchia. Per uno che aveva fatto tutta la trafila nelle giovanili del Torino, mettendo in bacheca scudetti giovanili e piazzamenti prestigiosi, come il titolo di vicecampione d’Italia a livello Primavera, la C2 dell’epoca con il Civitavecchia non deve essere stato l’approdo dei sogni: «Venivo da una stagione travagliata a Taranto in C1, anche per via dell’impegno del servizio militare. Non avevo molto mercato e Moggi, all’epoca direttore generale del Toro, conosceva benissimo il presidente Giovannino Fattori, e così insieme a Marello e Panero arrivammo a Civitavecchia». Era il 1983, il Civitavecchia era in serie C2, tra i professionisti. Si vedeva subito però che quel piccolo mancino tutta tecnica e corsa aveva i numeri da campione vero. Quello che all’epoca si chiamava tornante, oggi magari si dice esterno, comunque un centrocampista con attitudine offensiva, l’assist e i cross erano i suoi migliori biglietti da visita. Tre anni in nerazzurro, tre stagioni per conquistare ed essere conquistato da Civitavecchia. «Tre salvezze consecutive, le prime due comode, con tante soddisfazioni tolte. L’ultima tribolata, con l’ormai celebre spareggio a Terni contro il Montevarchi. «Feci quattro assist, metto quella partita tra i ricordi più belli della mia carriera». Già, la carriera. Per Gaetano piena di rimpianti, di occasioni mancate, di qualche treno perso e mai tornato. «Ero uno dei più promettenti – racconta – del settore giovanile del Toro, che all’epoca sfornava giocatori su giocatori. Il tecnico responsabile era Sergio Vatta, un grande maestro. Quando arrivai a Civitavecchia ero di proprietà del Torino, che infatti mi ‘rubò’ per fare il torneo di Viareggio,. Lo vincemmo e risultati uno dei migliori della manifestazione. Pensai che era fatta, che mi si erano spalancate le porte». E invece? «Di quei 18 giocatori del Toro – continua – 15 l’anno dopo giocarono in serie A o B. Io rimasi a Civitavecchia. Credo ci siano stati fattori che sono andati al di là degli aspetti tecnici e di meritocrazia…» È uno dei rimpianti che Colapietro porta con sé. Per i tifosi nerazzurri è una fortuna, perché rimane per altri due anni con il numero 11 sulle spalle a percorrere su e giù la fascia sinistra del Comunale. Ma dopo tre stagioni sente che il ciclo nerazzurro era al capolinea. «Devo ringraziare i dirigenti del che mi lasciarono andare via a meno di quello che potevano guadagnarci. Avevano capito le mie esigenze, avevo bisogno di stimoli nuovi, cercavo ancora qualche treno per l’alto livello. Andai alla Pro Vercelli, ma dopo un grande inizio di stagione mi feci male a tutte e due le ginocchia: in sei mesi tre operazioni». Dopo altre due stagioni a Vercelli e altre due a Novara, a 27 anni Colapietro fece una scelta di vita: tornò a Civitavecchia ma non con il Civitavecchia: «Mia moglie, che è di qui, era incinta. Io non avevo più stimoli per il calcio, avevo deciso di fare altro. Il mio amico Lelio Petronilli mi fece allenare con il suo Tarquinia, poi andai a Manciano, in Promozione. Ma la svolta fu l’anno successivo. Cominciai con il calcio a 5». Già, perché qui nasce la seconda carriera di Colapietro. Dove si prende alcune soddisfazioni che gli erano mancate nel calcio, «anche se sono state piccole rivincite sportive. Una piccola ricompensa per quello che, credo, mi era stato ingiustamente tolto dalla sfortuna e dalle persone. Mi sono sempre chiesto, e mi chiedo ancora oggi: e se mi avessero dato la possibilità, all’epoca? Magari avrei fallito, ma almeno mi sarei ‘rovinato’ con le mie mani». L’alto livello arriva con il calcio a 5. Si era nei primi anni novanta e il ‘calcetto’ comincia a prendere piede in Italia. Colapietro, dall’alto della sua tecnica sopraffina, ne diventa subito un interprete supremo: «Dopo il primo anno qui a Civitavecchia, mi chiama l’Ericsson Sielte. Mi sento rinato calcisticamente, un adolescente anche se ormai ero ultratrentenne. Arriviamo a giocarci lo scudetto contro l’imbattibile BNL Roma, e per me anche la maglia azzurra». Di presenze Gaetano con l’Italia ne colleziona diciotto, ma la sfortuna era in agguato anche tra le porte più piccole. «Ero stato convocato per i Mondiali, ma alla vigiila salta l’ennesimo menisco, e addio Mondiali». Allora Colapietro si sente un perseguitato dalla malasorte? «Macchè, non sarò stato fortunato nella mia carriera, ma lo sono nella vita. Ho l’amore di una moglie e una figlia, ho scelto di vivere a Civitavecchia e ci sto benissimo». Il Colapietro di oggi ha ancora il virus sportivo dentro. La mattina lavora insieme alla moglie con il loro banco di intimi nei mercati del comprensorio, il pomeriggio gioca a tennis e soprattutto insegna calcio ai più piccoli del Dlf: «Non si programma più, si vuole tutto e subito. La mia soddisfazione è vedere un ragazzo che da zero arriva fino a uno, e poi da uno arriva fino a due. Il calcio, o meglio, lo sport in generale dei più giovani è genuino, i ragazzi sono spiriti liberi. E a me piace da morire insegnare calcio, aiutarli nella loro crescita sportiva e di vita».
Sport
2 Novembre 2011
<strong>AMARCORD</strong>: <em>I rimpianti per quell’occasione mai avuta e poi il calcetto: la storia di Gaetano Colapietro</em>