Dai licheni alle ortiche, dalle alghe agli insetti. Dai boschi alle montagne fino al mare: la natura, quella più selvaggia, mette a disposizione un ventaglio di ‘nuovi’ sapori per la nostra tavola del futuro. La ricerca di cibo selvatico ha un nome ben preciso: si chiama foraging. «E’ l’attività di raccogliere vegetali o parti di essi adatti al nutrimento umano in ambienti incontaminati come spiagge, boschi, alta montagna, foreste. Nel foraging possono essere inclusi molluschi di mare e di terra e anche gli insetti», dice Valeria Margherita Mosca, direttrice di Wood*ing ma prima di tutto forager e chef.
Il foraging è un’attività che richiede competenze specifiche su «habitat, botanica, ambiente nel suo complesso per entrare in armonia con esso e rispettarlo», continua. In questo momento «per i forager è un periodo glorioso in quanto si possono ancora raccogliere le parti verdi, quindi erbe e foglie degli alberi, e radici». Ora, ad esempio, è tempo di: «Prugnolo, sorbo, radici di bardana e tarassaco, erbe come piantaggine e tarassaco…».
Ma il sapore? Secondo Valeria Margherita Mosca i «vantaggi organolettici sono innumerevoli dal momento che ci troviamo davanti a un catalogo di nuovi alimenti che possono suggerire nuove consistenze e sapori. Nel cibo selvatico il gusto è all’ennesima potenza. Un’insalata selvatica ha una serie di sapori e gusti accentuati che non si trovano nel cibo coltivato».
Non solo. «Il cibo selvatico è molto più ricco di minerali, vitamine e nutrienti» rispetto a quello coltivato. L’ortica, ad esempio, ha 25 volte più vitamina C rispetto alla lattuga coltivata. L’abete rosso 8 volte più di un limone. Ma non ci sono ‘solo’ licheni, rosa canina, rabarbaro, rafano o luppolo. Wood*ing ha dedicato un braccio del laboratorio alla ricerca sull’entomofagia: «Noi ci occupiamo di insetti selvatici, non allevati – spiega – Abbiamo fatto esperimenti per un’introduzione nell’alimentazione quotidiana con la camola del miele e della farina e con i grilli. Obiettivo: capire come questo cibo del futuro può essere inserito in un contesto quotidiano».
Il risultato? «Entusiasmante: sono interessanti sia dal punto di vista organolettico, i toni vanno dall’agrumato al sentore di frutta secca. Gusti diversi che variano a seconda dell’alimentazione dell’insetto». E «hanno anche altri vantaggi: sono poco impegnativi, contengono un’elevata quantità di proteine e di grassi più sani». Insomma, ribadisce, «superata l’impasse iniziale, molto psicologica, possono essere interessanti». Fondamentale, però, non improvvisarsi cercatori di cibo selvatico, è necessario seguire corsi o chi ha studiato a fondo la materia. «Perché può essere anche pericoloso. Un ‘sosia’ cattivo può essere tossico o anche mortale, non basta comprare un libro», avverte.
Energia e ambiente
6 Ottobre 2015
Dall’ortica al grillo, il cibo del futuro