«Una vera rivoluzione» nella terapie delle leucemie, «grazie allo sviluppo di una nuova generazione di cure mirate, che vanno a colpire in modo preciso alcuni meccanismi biologici che tengono in vita le cellule leucemiche». A descrivere una nuova era nella lotta alle leucemie è Antonio Cuneo, ordinario di Malattie del sangue e direttore del Dipartimento medico specialistico dell’Azienda ospedaliero universitaria S. Anna di Ferrara, nel corso di un simposio dedicato alla leucemia linfatica cronica, organizzato da AbbVie in occasione del Congresso Sies (Società italiana di ematologia sperimentale) di Rimini. «Sono circa 3000 i nuovi casi di leucemia linfatica cronica che si verificano in Italia ogni anno – ricorda il presidente della Sies Massimo Massaia, associato di Ematologia dell’Università di Torino – pazienti con un’età media di 70 anni e una malattia che va trattata solo nel momento in cui progredisce». Ebbene, «se già eravamo passati dalla vecchia chemio alla chemioimmunoterapia, cioè all’abbinamento di agenti efficaci e ben tollerati ad anticorpi monoclonali che, come missili intelligenti, colpiscono una proteina espressa sui linfociti leucemici, oggi abbiamo un’arma in più», riprende Cuneo. Si tratta di una nuova classe di farmaci, «formata al momento da tre molecole – ibrutinib, idelalisib e venetoclax – definiti target therapy perché, come ‘cecchini’, bersagliano meccanismi specifici che tengono in vita le cellule leucemiche. E hanno migliorato di molto la sopravvivenza dei pazienti con questa forma di leucemia». «L’ultimo del ‘trio’, venetoclax, è stato approvato in Usa e ha ottenuto pochi giorni fa il via libera del Comitato tecnico dell’Agenzia europea del farmaco», ricorda Massaia. E l’azienda si aspetta il via libera finale entro un paio di mesi. «Oggi siamo in grado di identificare, grazie a test genetici, i pazienti che hanno un’elevata probabilità di rispondere al trattamento chemioimmunoterapico e di rimanere, al termine del ciclo di terapia, con una malattia silente per anni», continua Cuneo. Nel 90% dei casi, dunque, l’approccio più utile in prima battuta è il missile intelligente più la chemioimmuno, sintetizza l’esperto. «Ma il 10% dei pazienti è portatore di una mutazione genetica sfavorevole. Ebbene, per loro e per chi subisce ricadute dopo la chemioimmunoterapia, oggi abbiamo questa nuova classe di farmaci in grado di produrre risposte positive straordinarie in oltre i tre quarti di questi pazienti, che prima non avevano una prospettiva di cura efficace».
Speciale medicina
29 Ottobre 2016
Leucemie, la nuova era della target therapy