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    Speciale medicina
    31 Ottobre 2018
    Prevenzione infarto, nel Lazio il nuovo progetto

    Ogni anno nel Lazio si verificano 11 mila i ricoveri per infarto miocardico acuto. Ma un progetto per migliorare la gestione clinica dei pazienti a rischio più elevato ha consentito di ridurre i ricoveri. L’esperienza realizzata nella Regione Lazio è stata presentata in occasione della seconda edizione di Meridiano Cardio ‘Nuove prospettive nella prevenzione secondaria cardiovascolare: focus sull’ipercolesterolemia’ promosso da The European House-Ambrosetti. «Nel Lazio si verificano ogni anno 11 mila ricoveri per infarto miocardico acuto con una mortalità a 30 giorni che nel 2017 si è attestata intorno al 7%, in calo ormai da molti anni – ha ricordato Furio Colivicchi, direttore Uoc di Cardiologia, ospedale San Filippo Neri di Roma – Le rilevazioni sistematiche nella regione sono iniziate agli inizi di questo secolo, quando i valori erano decisamente più alti, intorno al 15%. Questa diminuzione è merito dell’implementazione delle terapie di rivascolarizzazione, dell’uso della angioplastica primaria e, per alcune forme di infarto, della trombolisi». «Purtroppo – ha aggiunto Colivicchi – nella fase cronica le cose non vanno altrettanto bene. La mortalità dal trentesimo giorno alla fine del dodicesimo mese non si è ridotta molto negli ultimi anni e si attesta ancora su valori superiori al 12%, analoghi a quelli del 2009». Un mancato miglioramento che dipende da svariate cause – secondo gli esperti – per esempio dall’invecchiamento della popolazione per cui l’infarto colpisce pazienti sempre più anziani, con conseguente aumento della mortalità nel medio periodo, ma dove un ruolo rilevante è senza dubbio giocato dalle difficoltà nella gestione della prevenzione secondaria. In alcune regioni italiane, fra cui il Lazio, si è cercato di dare una risposta a queste difficoltà con interventi volti e migliorare la presa in carico dei pazienti in prevenzione secondaria. « Abbiamo creato – ha spiegato Colivicchi – degli ambulatori ospedalieri che potessero prendere in carico i malati con il profilo di rischio più alto e collaborare con le strutture del territorio».