Se Covid-19 danneggia doppiamente il polmone, interessando alveoli e capillari, il rischio di mortalità in terapia intensiva è più elevato. Ma due semplici esami, assieme al supporto del massimo delle cure intensive, possono portare un calo della mortalità fino al 50%. Indica il problema, e al contempo la soluzione, uno studio italiano pubblicato su “Lancet Respiratory Medicine” nei giorni scorsi. A guidare la ricerca che descrive il meccanismo responsabile dell’elevata mortalità in terapia intensiva dei pazienti Covid è il Policlinico Sant’Orsola di Bologna. Allo studio ha partecipato anche Franco Locatelli dell’ospedale Bambino Gesù, presidente del Consiglio superiore di sanità (Css) e membro del Comitato tecnico scientifico (Cts) per l’emergenza coronavirus.
Nel dettaglio, lo studio dimostra che il virus può danneggiare entrambe le componenti del polmone: gli alveoli (le unità del polmone che prendono l’ossigeno e cedono l’anidride carbonica) e i capillari (i vasi sanguigni dove avviene lo scambio tra anidride carbonica e ossigeno). Quando il virus danneggia sia gli alveoli che i capillari polmonari, muore quasi il 60% dei pazienti. Quando il virus danneggia o gli alveoli o i capillari, a morire è poco più del 20% dei pazienti. Il “fenotipo” dei pazienti in cui il virus danneggia sia gli alveoli che i capillari (pazienti col “doppio danno”) è facilmente identificabile attraverso la misura di un parametro di funzionalità polmonare e di un parametro ematochimico.