Don Ivan Leto*
I farisei vogliono compromettere Gesù (in greco, “cogliere in fallo”) e per questo gli mandano i loro discepoli con uno scopo perfido. Con falsa sincerità e interesse, gli chiedono che si pronunci pubblicamente su un problema delicato che turba la coscienza religiosa. E lo fanno presentandogli un caso di coscienza, non senza prima averlo elogiato “sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia nessuno” v.16. Tra gli avversari di Gesù non c’erano solamente i discepoli dei farisei, mandati dai loro capi, ma anche alcuni erodiani (una piccola fazione fedele al tetrarca Erode Antìpa). “È lecito o no pagare il tributo a Cesare?”. Accettare il contributo pro capite (tributum capitis) all’impero romano, segno di sottomissione a un potere straniero pagano, significava perdere il favore del popolo. Proclamarlo illecito equivaleva a un atto di ribellione che, certamente, si pagava con la morte. Prima di rispondere a questa domanda maliziosa, Gesù mette alla prova i suoi avversari con una moneta romana, con un denaro. E tutti conoscevano il legame che i farisei avevano con il denaro. Loro, i massimi difensori dell’eroismo nazionale, erano quelli che traevano beneficio dall’economia romana. La risposta di Gesù “rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” mette l’accento sulla seconda parte. Gli hanno domandato di Cesare, ma Gesù è venuto a parlare di suo Padre. Non si tratta, semplicisticamente, di separare gli ambiti ponendo la questione nei termini del dualismo tra vita materiale e vita spirituale, ma di riconoscere che esiste un primato rispetto alla moneta col sigillo di Cesare, che è il primato di Dio.
*Don Ivan Leto
Parroco di San Gordiano
Diocesi Civitavecchia-Tarquinia