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    Salute
    17 Agosto 2022
    (Adnkronos) - Non sempre lasciare andare oggetti, ricordi e persone è facile. Tenere cose per sé è completamente normale, così come collezionare o accumulare oggetti e ricordi. Vi sono casi in cui, però, questo ...
    Quando accumulare oggetti diventa malattia, ecco le ‘spie’
    (Adnkronos) - Non sempre lasciare andare oggetti, ricordi e persone è facile. Tenere cose per sé è completamente normale, così come collezionare o accumulare oggetti e ricordi. Vi sono casi in cui, però, questo ...

    (Adnkronos) – Non sempre lasciare andare oggetti, ricordi e persone è facile. Tenere cose per sé è completamente normale, così come collezionare o accumulare oggetti e ricordi. Vi sono casi in cui, però, questo atteggiamento diventa patologico, ovvero quando il bisogno di acquisire questi beni – senza peraltro utilizzarli o gettarli via – si traduce in una pesante limitazione delle attività di tutti i giorni, a partire dall’igiene, alla pulizia degli spazi, al riposo. La difficoltà di liberarsi degli oggetti diventa dunue disfunzionale, e si traduce in una vera e propria patologia, nota come disturbo da accumulo o disposofobia. A parlarne è Paola Mosini, psicologa e psicoterapeuta del Centro psico medical care dell’Humanitas, che illustra anche quali sono le ‘spie’ da non sottovalutare, ‘anticamera’ della malattia.

    Tra i campanelli di allarme, ci sono alcuni segnali che i familiari devono cogliere perché si tratta di comportamenti sufficienti per rivolgersi a uno specialista: si va dalla difficoltà nella gestione economica della casa alla presenza di discussioni in famiglia causate da eccessive ‘cose in casa’ che generano disordine; dall’eccessiva tendenza a fare scorte alla tendenza alla procrastinazione di comportamenti di riordino, fino alla riduzione delle relazioni sociali e al ritiro dalla vita sociale, spesso alla chiusura dentro casa. Un intervento precoce – si spiega nell’articolo – permette di prevenire l’aggravamento di condizioni cliniche sottosoglia che col tempo possono addirittura arrivare a compromettere il benessere psicologico di una persona e dei propri familiari.

    “Chi soffre di disposofobia – spiega l’esperta sulla newsletter dell’Irccs lombardo – tende ad accumulare senza freni, e non sembra curarsi del fatto che l’accumulo stesso riduca o persino impedisca di girare per casa. In questi casi patologici di compulsione di accumulo si sviluppa la paura di buttare via ciò che si colleziona. Vi è la tendenza a ripetersi che ogni cosa potrebbe rivelarsi utile un domani – aggiunge – perché potrebbe accrescere il proprio valore economico o affettivo. Questo pensiero può diventare una guida che conduce dritta all’accumulo”.

    Le persone che hanno un disturbo da accumulo “percepiscono un forte attaccamento emotivo nei confronti di oggetti – prosegue Paola Mosini – e avvertono il bisogno di mantenere una presunta forma di controllo su di essi, tanto da non accettare che nessuno li tocchi o li butti. Solo il pensare a cosa eliminare, in queste persone genera ansia e angoscia; il passaggio dal pensiero all’azione di fatto non viene mai attuato sia per il timore di prendere la decisione sbagliata, sia per l’incapacità a distaccarsi dagli oggetti, anche se poi vengono abbandonati nel degrado che spesso circonda chi ne soffre”.

    Come intervenire in caso di disturbo di accumulo? “Un intervento esterno, come quello di un convivente che decide di svuotare fisicamente la casa, non risulta utile e, anzi, scatena in chi ne soffre reazioni avverse”, avverte l’esperta. “La terapia cognitivo comportamentale risulta essere il trattamento d’elezione: una parte della terapia dovrebbe includere una fase psicoeducazionale per il paziente, così da promuovere una maggior consapevolezza di malattia, ma anche per i suoi familiari. È inoltre fondamentale poter far comprendere la presenza di una componente biologica nell’origine di tale disturbo: in questo modo si potrà cercare di riscattare, almeno in parte, l’immagine negativa del paziente che spesso si è strutturata nel tempo. Un buon intervento – conclude- deve partire dallo sviluppo di una solida alleanza terapeutica tra i soggetti coinvolti, cosa che permetterà di costruire un percorso mirato e con obiettivi condivisi”.